Due articoli di Dino Frisullo. Siamo in guerra. Ve ne siete accorti? Il Dirottamento.

Due articoli del 2001. Cambiate le date, i luoghi, i nomi (quando ci sono, perché i nomi quasi sempre non li daranno, non racconteranno mai le vite, le sofferenze, i cuori, non diranno nulla più di freddi numeri statistici o poco più tranne quando son costretti o fa audience…) ma i fatti son gli stessi. Son passati 14 anni ma è oggi, è ancora CRONACA NERA, del peggior nero possibile. Col cuore che scoppia di rabbia, d’indignazione, di dolore nel leggere e vedere …

Siamo in guerra. Ve ne siete accorti?

19.10.2001

Siamo in guerra. Ve ne siete accorti?

Non dico la grandine di bombe sull’Afghanistan, la tempesta che s’addensa sull’Iraq e sui kurdi, i lampi di guerra in Kashmir, lo stillicidio di morte in Palestina. Dico la guerra qui, in occidente, nelle nostre città.

Il consiglio dei ministri ha approvato ieri una legislazione antiterrorismo che sanzionerà pesantemente chi ospita o aiuta i terroristi. I ministri dell’Interno e della Giustizia dell’UE hanno proposto, e fra poco sarà direttiva europea, un’estensione continentale dei mandati di cattura e dunque delle relative motivazioni. Se tanto mi dà tanto, fra poco potrei essere arrestato su mandato, poniamo, d’un giudice tedesco, perché ho accompagnato in una serie d’incontri un esponente del PKK kurdo, che in mezza Europa è fuorilegge ed è stato incluso dal Dipartimento di Stato Usa nella lista delle organizzazioni terroriste…

Sempre ieri, secondo un giornalista bene informato, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza di Roma ha deciso che in tempo di guerra tutti i campi di stranieri illegali vanno sgomberati. Come nel ’91 fu sgomberata la Pantanella di Roma durante la guerra del Golfo… Non si capisce se l’illegalità si riferisca allo status giuridico degli interessati o alla loro occupazione abusiva di spazi. Ad ambedue probabilmente, a discrezione degli agenti. Voleranno gli stracci, comunque. A migliaia. Quale Gino Strada alzerà la voce in difesa dei profughi di casa nostra?

Non era una forzatura dunque l’apertura del documento sui migranti approvato a Perugia dall’Onu dei Popoli, che chiamava ad una “ingerenza umanitaria” in difesa delle vittime, nei luoghi in cui rischia di consumarsi la guerra della discriminazione e del razzismo, dalle frontiere ai ghetti urbani, dai centri di detenzione alle questure.

Già, le questure… Fra un’ora, alle 3 di notte, un folto gruppo di richiedenti asilo si disporrà a una lunga attesa, nella notte che si va facendo fredda, davanti al portone sbarrato dell’Ufficio stranieri della questura di Roma. Sperando di avere fortuna stavolta, di essere fra i pochi fortunati che domattina varcheranno quel portone e potranno presentarsi ad uno sportello per sapere del loro destino, cioè del responso del cieco oracolo che sta al Viminale, la commissione che dopo un anno ed oltre di attesa decide dell’asilo o dell’espulsione – della vita o della morte.

Nell’ultima settimana sono già cinque, solo fra i kurdi di Turchia e solo a Roma, i responsi negativi dell’oracolo. Questa sera erano in fila tutt’e cinque, lo sguardo perso nel vuoto, allo sportello legale dell’associazione Azad. “Considerato che l’atteggiamento di simpatia verso i partiti che appoggiano la causa curda, atteggiamento comune peraltro a tutto il popolo curdo, non dà luogo a una persecuzione diretta o personale…” Non sanno, quei funzionari, che la semplice simpatia per organizzazioni illegali costa lunghi anni di carcere duro in Turchia? Non gli ha forse raccontato, il diciannovenne Ayhan Tekin, del padre torturato dalla polizia davanti ai suoi occhi?

Ma la guerra copre, rimuove, ottunde. La guerra riduce i colori e le sfumature del mondo a un allucinante biancoenero: amico/nemico, e il nemico del mio amico (alleato Nato) è mio nemico.

Dunque era nemica anche Milli Gullu, morta per asfissia a ventisette anni nella stiva d’una nave negriera sotto gli occhi sbarrati del marito e delle due figlie piccole, e quella stiva fetida non fu aperta che due giorni dopo. Milli fuggiva da un processo daavnti al tribunale speciale per aver partecipato a uno sciopero della fame in difesa del suo presidente Ocalan, che prima di lei s’era presentato alla frontiera italiana per chiedere asilo. Uccisa lei prima di vedere l’Italia, consegnato lui alla cella della morte dopo averla appena intravista, l’Italia. Mi ha telefonato stasera M. da Crotone: al vedovo i gestori del centro d’accoglienza di Sant’Anna (su quella pista che vent’anni fa occupammo per non vederne decollare gli F-16, ed ora ospita le vittime degli F-16 in fuga) impediscono di uscire per vedere un’ultima volta, composto nell’obitorio e non nell’allucinante fetore di quella stiva, il corpo di sua moglie.

M. ha coraggio. Dieci giorni fa, sorpreso a Lecce con un fascio di riviste della lotta del suo popolo (legali in Italia), è stato fermato, tenuto in isolamento per tre giorni nel centro di Otranto indegnamente intitolato al povero vescovo scalzo Tonino Bello, interrogato, spogliato nudo, picchiato, infine rilasciato. Chi potrà denunciarli? La sua parola contro la loro.

Centri d’accoglienza come centri di detenzione. D’altronde Bossi e Fini non propongono di recludere tutti i richiedenti asilo, tanto per non sbagliare e prevenire le istanze “strumentali”? E Livia Turco non trova di meglio, davanti a quel povero cadavere, che addebitare al nuovo governo di non averne aperti di più, di centri di detenzione, e di non aver messo in pratica gli accordi d’interdizione dell’esodo (e dunque, presumibilmente, di rimpatrio degli asilanti) con la Turchia. Mi raccontava ieri al telefono il marito di Milli, e lo pubblicherà domani il Manifesto, che la polizia turca li ha scortati fino al porto di Smirne, quei fuggitivi, facendosi lautamente pagare il disturbo. Tanto, che crepino in mare o nelle galere, che differenza fa? E oggi, nelle galere a cui Milli è sfuggita solo con la morte, un altro detenuto è morto per fame.

Centri di detenzione. Come quello cattolicissimo di Regina Pacis, a San Foca di Lecce, per il quale s’è chiesto addirittura il Nobel per la pace, e dal quale in agosto undici kurdi, in ottobre più di cento tamil dello Sri Lanka, sono stati consegnati alla polizia che a sua volta li ha consegnati ai loro torturatori. A Colombo è volato da Brindisi il primo charter “à la française” italiano. A bordo aveva centodieci disgraziati, che non avevano neppure potuto incontrare un avvocato, e cinquanta poliziotti di scorta.

Nel centro di Melendugno, a Lecce, più di trecento profughi hanno dovuto avviare uno sciopero della fame per ottenere almeno di potersi lavare e rivestire: avevano ancora indosso i panni della nave. Nel centro di Rotondella quaranta profughi, abbandonati dagli uomini e da dio, hanno inscenato una manifestazione.

Centri di detenzione… In quello di Ponte Galeria hanno portato cinque pakistani sorpresi nell’atto flagrante di vendere qualche cd senza pagare la tangente alla Siae, reato atroce a sanzionare il quale Bossi e Fini hanno destinato un terribilissinmo articolo della loro proposta di legge. Non so ancora se l’intervento dell’avvocata di Senzaconfine sia riuscito a evitargli il rimpatrio, so che al solo pensiero piangevano di paura: vengono dalla regione che confina con la guerra.

E dalla guerra fuggivano i compagni di sventura di Milli e suo marito, di guerra non finivano di parlare nel buio di quella stiva, mentre Milli agonizzava. Afghani, pakistani, irakeni, kurdi… La guerra moltiplica l’esodo, che accresce la sindrome d’invasione, che amplifica il razzismo, che sostanzia la guerra.

Per rompere questo cerchio infernale avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, forza e passione. Di una rete capillare che sappia spiegare, tutelare, rivendicare diritti umani e convivenza. Anche disobbedendo le leggi, se a partorirle sono i Le Pen e gli Haider di casa nostra.

E… scusate lo sfogo. A notte fonda, volevo solo dividere con voi il peso di una lunga giornata di guerra. Non a Kabul, a Roma.

 

Il Dirottamento.

In memoria di Malli Gullu – rimpatriata dal paese che non vide mai

Quando i venti uomini, attraversato l’enorme capannone ingombro di merci, entrarono nella sala mortuaria e si allinearono in silenzio intorno alla bara, il tempo si fermò per un lunghissimo momento. Con loro, ai quattro angoli d’uno squallido sgabuzzino senza finestre, quattro agenti della Polaria e il direttore dello scalo merci di Fiumicino.

Il sonoro ronzio di un moscone attrasse alcuni sguardi. Veniva dal sole caldo dell’ottobre romano. Dalla vita. Attraversò la stanza e volò subito fuori, come spaventato.

Quaranta occhi tornarono a fissare il telo grezzo bianco malamente appuntato sotto un mazzo di fiori mezzo stecchiti, su una cassa di legno innaturalmente grande per il corpo di una giovane donna.

Nessuno fiatava. Qualche mano si mosse esitante a sfiorare il legno, i chiodi, la tela. Alcuni occhi si chiusero forte sotto le fronti aggrottate per scacciare un pensiero, un’immagine. L’immagine di quel corpo che doveva essere stato bello e fresco un tempo, e il giorno prima non era potuto partire perché troppo gonfio e guasto.

Dopo due giorni nella stiva di quella nave e altri dieci in chissà quale magazzino a Crotone, il comandante aveva rifiutato di caricare la bara. Troppo forte l’odore della morte. Forse avevano dovuto cambiarla con una più grande ed ermetica, che potesse contenere ciò che era diventato il corpo di Malli Gullù.

 

***

 

Il moscone rientrò nella stanza con un ronzio leggero e si posò piano sulla bara. Si guardò intorno disorientato, fece un mezzo giro su sé stesso, poi volò ancora dritto verso la porta e si scagliò verso il cielo, tendendo le ali brillanti come un aereo in fase di decollo.

 

***

 

L’aereo lacerò la ragnatela delle nuvole e protese le ali brillanti in alto, verso il sole…

 

***

 

“Riprénditela, ma falle cambiare vita. E cambia strada pure tu, finché sei in tempo. Lo sappiamo che sei un terrorista, tu e tutti i tuoi parenti laggiù a Sirnak. Ce l’hai portata tu nella sede dell’Hadep, tua moglie, e tu sei responsabile dei suoi guai. La prossima volta non la rivedrai tanto facilmente!”

L’uomo sentì i muscoli del viso e delle braccia tendersi dolorosamente nello sforzo di non rispondere, di non colpire. Si chinò e sollevò quasi di peso il corpo sottile di Malli afflosciato su una sedia. Sentì all’orecchio il suo respiro pesante, quasi un rantolo. I lunghi capelli erano rappresi dallo stesso sangue che macchiava il vestito, il viso era annerito dai lividi.

Lentamente, un gradino dopo l’altro, riuscì a portarla giù per le scale della caserma di Gebze. Ogni movimento le strappava un gemito. Il gendarme di guardia al portone li guardò entrambi con odio prima di premere il pulsante.

Fuori accorsero le donne, la sollevarono delicatamente sulle braccia robuste intrecciate a barella, volarono verso la macchina in attesa. I loro veli bianchi le fluttuavano attorno come un vestito da sposa.

 

***

 

“Mi hanno torturata…”

Il medico finse di non sentire, si cacciò le mani nelle tasche del camice e si rivolse bruscamente all’uomo in attesa: “Portala via, ha solo contusioni, guarirà presto”.

Guardò gli occhi imperiosi dell’ufficiale in piedi in fondo alla stanza, poi distolse lo sguardo dalla domanda muta dell’uomo.

“Lo so che vorresti una certificazione, ma non ce n’è bisogno. Tua moglie non ha versamenti interni o fratture, i lividi spariscono in fretta. Se dovessimo metterci a scrivere per ogni sciocchezza…”

 

***

 

Quando le tavole di lamiera si chiusero con colpi secchi di chiavarde sopra le loro teste, Malli barcollò e sarebbe caduta se non avesse trovato, nel buio, il braccio di suo marito. Gli si strinse e le due bambine si strinsero ad entrambi. L’aria era irrespirabile, rappresa di calore e fetore.

“Come in quella cella…” mormorò. “Manca l’aria e la luce, come là dentro. Ricordi? Mi sento male come allora. Ma qui almeno non verrà nessuno a picchiarmi, e ci siete voi…”

Scandiva le parole con difficoltà, ansimando. Lui le accarezzò con dolcezza i capelli e la fronte, come faceva sempre quando le tornavano quei ricordi.

“Calma, Malli. Siamo come in prigione, è vero, ma ti attendeva una prigione molto peggiore. Invece stiamo andando verso la libertà. Fatti forza, è l’ultima fatica”.

Qualcuno nel buio gli toccò il braccio, poi sentì una voce in kurdo con l’accento del sud.

Hevàl, avete cibo e acqua con voi? Siamo chiusi qua dentro in quattrocento da tre giorni, fermi ad aspettare voialtri dalla Turchia. Abbiamo messo in comune tutto, dovreste farlo anche voi. Abbiamo sete. Ci è rimasta solo una tinozza d’acqua sporca e dei pani ammuffiti che non vi consiglio, hanno fatto apposta a lasciarceli vicino alla latrina. Hai acqua e pane per i miei bambini, hevàl?”

Lui si svincolò lentamente dall’abbraccio di Malli, si chinò a rovistare nel grande zaino militare e ne trasse una bottiglia e due pani rotondi odorosi di sesamo. L’altro quasi glieli strappò di mano mormorando un “grazie, hevàl“. Con gli occhi ormai abituati all’oscurità, lo videro farsi largo nel groviglio di corpi fino a un gruppo di donne e bambini addossati alla parete, accasciati sul terriccio misto a letame che copriva il fondo della stiva. I pani e l’acqua finirono in un attimo.

 

***

 

Questa volta tutti, anche i poliziotti, si volsero a seguire affascinati il volo del moscone. Poi tornarono a guardare alternativamente la bara e i propri piedi, incerti.

Avevano lasciato il centro d’accoglienza così in fretta da dimenticare sul tavolo il gran mazzo di fiori gialli e rossi un po’ appassiti che il giorno prima avevano comprati per poche lire da un fioraio amico e s’erano dovuti riportare indietro. Che fare davanti a una bara, senza neanche un fiore?

L’italiano ripensò alla burocrazia aeroportuale che aveva escluso categoricamente la possibilità di esporre la bara nella chiesetta accanto all’aeroporto, dove avrebbero potuto circondarla di fiori, pensieri e parole con quella serenità che donano le chiese di campagna anche a chi non crede o crede in un altro Iddio.

“Non si può, il feretro ha già i fogli per l’espatrio, dunque è come se fosse già all’estero, e la chiesa è territorio nazionale, non può rientrare in Italia neanche per pochi metri, le norme sono chiare…”

Così dovevano salutarla fra quelle mura scrostate chiuse da una saracinesca, unico arredo un lavandino nella parete di fronte. L’italiano strinse i pugni e inghiottì un fiotto di rabbia impotente.

Il piccolo Mahsun fu il primo a sollevare lo sguardo. Si schiarì la gola e cominciò a parlare in turco in tono sommesso, poi via via più alto. Tutti pendevano dalle sue labbra.

“Questo corpo, compagni, è di una donna del partito Hadep. Ha conosciuto la prigione e la tortura per lo sciopero della fame che le donne intrapresero in tutte le città tre anni fa, quando fu sequestrato in Kenya il nostro presidente. E’ fuggita dalla Turchia con il marito e le figlie perché per quello sciopero della fame l’attendeva una condanna a lunghi anni di carcere. E’ morta soffocata nella stiva di una nave…”

 

***

 

Quelle navi di legno fradicio e di ferro arrugginito… Chi veniva dai villaggi il mare non l’aveva mai conosciuto, e ne aveva paura.

Negli incubi di ciascuno di loro, anche dei bambini, soprattutto dei bambini, ritornava il mare e quelle stive fetide, le armi spianate dei poliziotti che li scortavano nella notte fino al porto e poi quelle degli equipaggi mafiosi, le banconote passano di mano in mano in pacchetti sempre più grossi, le onde sempre più alte nella notte nera, i colpi che sembrano spaccare il fasciame, gli ordini secchi, il pianto dei bambini, il puzzo pungente di orina, l’imbarazzo delle donne per la promiscuità, il rombo dei motori e delle eliche, e poi d’improvviso il silenzio, lunghe attese sballottati in mezzo al mare, e nuovi carichi umani e la nave riparte, i vestiti si fanno ruvidi d’untuosa polvere salmastra, le barbe lunghe e la fame, e le canzoni le storie gli scherzi in dieci lingue per far passare la fame e la paura, ma i racconti tornano sempre alla prigione e alla guerra e qualcuno protesta, basta pensiamo al futuro, siamo quasi in Europa, e l’Europa prende forma di scogli appuntiti e neri nel mare in tempesta, il timone impazzisce e l’equipaggio fugge, la nave fa acqua, torna il terrore della morte, le urla non sovrastano il muggito del mare nella notte nera o nell’alba livida, e poi finalmente una nave, un elicottero, qualcuno in aiuto, e l’incubo finisce ma torna ogni volta che chiudi gli occhi, soprattutto i bambini, che non vogliono più dormire per non rivedere in sogno il mare…

Venti pensieri corsero alle navi che ciascuno aveva conosciuto. Uno dopo l’altro, tutti si sorpresero a tirare un respiro profondo. L’atmosfera s’era fatta d’improvviso ancora più soffocante, come in quelle stive o nei cassoni di quei Tir allineati nel ventre dei traghetti.

 

***

 

Il terzo giorno Malli svenne. Quando si riprese fra le braccia del marito, sentì che qualcosa le si era spezzato dentro. Rantolava. Ogni respiro era come una coltellata sempre più profonda.

Intorno a loro tutti dormivano addossati gli uni agli altri. Respiravano forte o russavano, e quel rumore ritmato di quattrocentocinquanta respiri all’unisono s’impastava con il rombo pulsante dei motori.

Malli si portò le mani alle orecchie che fischiavano, si sentì svenire un’altra volta. Si fece forza.

“Forse sto per morire” disse piano all’orecchio dell’uomo, che protestò debolmente. Bisbigliò ancora alcune parole e l’uomo scosse la testa con forza, poi la sua bocca si stirò in un sorriso incerto.

“Se non è che questo… Non morirai, sta’ tranquilla, era solo un malore. Comunque, se proprio vuoi… Ma come facciamo, in mezzo a tutta questa gente?”

Alla fine cedette, frugò nello zaino e ne tirò fuori un vestito. Era il più bello, quello rosso e verde rilucente dell’oro delle monete e dei monili, quello delle danze e delle feste più importanti. Le stese intorno una coperta e distolse lo sguardo, ma con la coda dell’occhio la guardò mentre a fatica, gemendo, lei si sfilava il vestito scuro e si fasciava di lucida seta.

Si sentì soffocare dalla tenerezza. La sua compagna (così la chiamava, non moglie, malgrado le proteste dei suoceri) non era mai stata così bella…

Quando gli occhi di Malli divennero vitrei, la sua bocca sorrideva ancora. Lui capì subito e cominciò a urlare. Tutti si svegliarono. Il suo grido divenne l’urlo disumano di quattrocento gole.

Continuò per due giorni e due notti quell’urlo, perdendosi nel vento e nel mare.

“Sono impazziti là sotto… Se gli apriamo ci saltano addosso, non se ne parla nemmeno. Buttategli qualche bottiglia d’acqua, qualche scatola di antibiotico. Che ci siano morti come gridano, non ci credo, hanno la pelle dura quei cani, sentite? ululano proprio come cani…”

 

***

 

Quando al largo di Crotone la issarono sopra coperta, il suo corpo snello s’era gonfiato al punto che tutti pensarono che fosse stata incinta. Ma sembrava ugualmente una regina. Sulla seta lucente il vento di maestrale agitava i lunghi capelli neri e faceva tintinnare le monete d’oro.

 

***

 

Svegliato di soprassalto dal suo stesso urlo l’uomo si drizzò nel lettino, madido di sudore. Si portò le mani alla gola. Lentamente tornò a respirare. Per fortuna le bambine non s’erano svegliate…

Le guardò dormire abbracciate e si chiese con angoscia se avrebbero mai avuto una vita normale, se avrebbero messo da parte il ricordo dei giorni trascorsi in quella stiva accanto al cadavere della madre.

Tornò a stendersi senza chiudere gli occhi. Quel pomeriggio il corpo di Malli era volato via verso Roma e Istanbul. Ne aveva avuto la certezza dall’interprete, ma non aveva potuto nemmeno rivedere la bara. Voleva accompagnarla fino a Roma nell’ultimo viaggio. La burocrazia l’aveva bloccato là nel campo di Crotone: niente da fare, non aveva ancora il permesso di soggiorno.

Quella sera, per la prima volta in dieci giorni, era riuscito a piangere.

“Vorrei tornare anch’io con lei…”

Dalle roulotte rugginose allineate sulla pista dell’ex aeroporto erano usciti in tanti, gli si erano stretti intorno senza parlare. Il suo dolore era anche il loro.

“Vorrei tornare…” Indicava in direzione del mare, oltre il mare e le montagne di Grecia e d’Anatolia. Tendeva le mani verso un villaggio del Botan, le ombre dolci delle montagne e il verde della valle del Tigri, il profumo del fieno, i canti e le risate nel tramonto, i vecchi accoccolati davanti alle case, le donne alla fontana, l’odore del pane appena cotto…

Lo sentirono tutti all’improvviso, l’odore del fieno e del pane. Fu quando un anziano gli prese le mani e disse con voce forte, a lui e a tutti: “Non piangere più. Tua moglie ha finito di soffrire. E’ tornata nel vostro villaggio e ti aspetta. Un giorno prenderai per mano le tue figlie e tornerai laggiù con loro. Con tutti noi. Torneremo un giorno nel nostro paese, ricostruiremo i villaggi distrutti e canteremo nella nostra lingua, e taglieremo il fieno e spezzeremo il pane…”

 

***

 

“Possiamo scrivere due parole di saluto sulla stoffa della bara? Nella fretta abbiamo dimenticato anche i fiori…”

Il sottufficiale si strinse nelle spalle e fece segno di sì. Un agente sorrise e trasse di tasca un pennarello nero. Scrissero lentamente sulla tela, in stampatello, due frasi di commiato in turco. In kurdo, lo sapevano, quelle parole sarebbero state cancellate all’arrivo a Istanbul.

“Noi, popolo kurdo in Italia e amici italiani…”

Come in un rito sfilarono davanti alla bara passandosi il pennarello e firmarono. Alcuni con uno sgorbio, per non far riconoscere il proprio nome; altri per esteso, come per sfida.

Si guardarono incerti. Mahsun alzò le braccia. Era finita. Il direttore dello scalo merci annuì: l’aereo attendeva in pista.

I kurdi si posero le mani giunte sul viso in un gesto di raccoglimento, quasi di preghiera, poi le appoggiarono sulla bara. Gli italiani li imitarono. Il funzionario tossicchiò, imbarazzato e impaziente.

Uno dopo l’altro staccarono le mani dalla bara. Uno degli italiani disse in turco, a voce alta: “Un giorno le tue figlie torneranno nel tuo paese libero, te lo giuriamo”.

In fila indiana, con un ultimo sguardo alla bara, si avviarono verso l’uscita.

 

***

 

Il moscone saettò verso l’alto, libero…

 

***

 

I venti uomini si scossero, come folgorati dalla stessa idea. Si volsero all’unisono. Le loro braccia sollevarono la bara con facilità.

Si mossero lentamente, solennemente, verso la pista dove l’aereo per Istanbul scaldava i motori. Gli agenti, sorpresi, li lasciarono passare. Quegli occhi incutevano rispetto.

Il piccolo corteo raggiunse l’aereo in attesa. A un chilometro di distanza i passeggeri si stavano stipando in un bus navetta. Ma per loro era troppo tardi.

Caricarono la bara nella stiva, poi salirono la scaletta. Nessuno mosse un dito per fermarli, neppure quando ordinarono all’equipaggio di chiudere i portelloni e decollare. Non avevano armi e non ce n’era bisogno. Bastarono gli sguardi.

Quando l’aereo atterrò sulla vecchia pista dell’aeroporto di Crotone, l’uomo già sapeva che sarebbero arrivati. Non disse una parola, ma prese per mano le sue bambine e seguì l’anziano.

In cento uscirono dalle roulotte e salirono a bordo. Pochi minuti dopo l’aereo lacerò la ragnatela delle nuvole e protese verso il cielo le ali brillanti.

All’arrivo a Istanbul una grande folla lo attendeva. Travolsero i cordoni di polizia, guidati e trascinati dalle donne di Gebze. Uscirono dall’aeroporto, la bara di Malli Gullù in testa, ed erano già in mille.

Quando attraversarono i quartieri di Istanbul e furono centomila, fu chiaro che neanche i blindati li avrebbero fermati. La notizia volò. Milioni di profughi si misero in cammino dall’Europa e da tutta la Turchia verso oriente.

Verso il Kurdistan, verso il sole, il fieno e il pane.

 

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Dino Frisullo – 27 ottobre 2001

(E’ tutto vero, tutto… tranne il finale: vi prego, facciamo che un giorno sia vero anche quello…)

Pubblicato da Alessio Di Florio

Militante comunista libertario e attivista eco-pacifista, referente abruzzese dell’Associazione Antimafie Rita Atria e di PeaceLink, Telematica per la Pace. Collabora tra gli altri con Giustizia!, Telejato.it, Casablanca, I Siciliani Giovani e altri siti web. Autore di articoli, dossier e approfondimenti sulle mafie in Abruzzo, a partire da mercato degli stupefacenti, ciclo dei rifiuti e rotta adriatica del clan dei Casalesi, ciclo del cemento, post terremoto a L'Aquila, e sui loro violenti tentativi di dominio territoriale da anni con attentati, intimidazioni, incendi, bombe con cui le mafie mandano messaggi e tentano di marcare la propria presenza in alcune zone, neofascismo, diritti civili, denunce ambientali tra cui tutela coste, speculazione edilizia, rischio industriale e direttive Seveso.